Stories

Pesante sul cuore

Che giorni difficili erano stati quei giorni!

Sembrava che tutto crollasse e non si rigenerasse più. Giorgio aveva smesso di ridere. Aveva smesso di sognare (quello già tempo indietro).

Il tempo si era fermato e, così, anche la sua vita. Rimaneva inchiodato alla sua scrivania, guardando fuori da una finestra, perché lui, fino a quel punto, era stato molto fortunato. Non era uno di quegli uomini obbligati a rimirare il muro della camera da imbiancare. No. Giorgio era di buona famiglia, benestante; da bambino voleva essere un supereroe, come Batman o Spiderman, da grande invece aveva deciso di non rischiare troppo sulle sue decisioni. Aveva rilevato l’attività ristorativa dei suoi genitori ed era andato avanti. Credendoci? Non lo sapeva nemmeno lui. Se ne stava in attesa che una specie di Fata Turchina moderna si palesasse per farglielo sapere. Aspettava un cambiamento, un cenno, anche minimo. Di cosa aveva bisogno? Una spinta emotiva? O un santone spirituale? O una bella cinquina stampata sulla guancia sinistra? Nemmeno questo Giorgio sapeva. Aveva solamente l’impressione che il mondo si fosse fermato e che venisse dato unicamente spazio alle mancanze di avanzare e alle speranze di retrocedere. Barricarsi dietro alla scrivania non sarebbe servito a niente. Da quando i suoi genitori non c’erano più, era vissuto di rendita. Nascosto dietro a quella sicurezza, che tanto lo inorgogliva. Cosa ne era stato del bambino, che credeva in Batman? Dove erano andate a finire le sue aspirazioni? Chi era veramente Giorgio? Si era forse dimenticato dell’uomo, che voleva diventare, o magari, era stato più semplice imboccare la strada già battuta, quella ben tracciata dai suoi amati genitori?

In natura tutti gli animali escogitano meccanismi ben studiati di mimetizzazione, per sfuggire alle minacce dell’ambiente. Per gli esseri umani, è però ben diverso: il nostro mimetismo consiste nell’adeguare il vestiario all’occasione, gestire il tono di voce, a seconda che ci troviamo di fronte a un professore, al medico della mutua o all’amico di infanzia, calibrare gli argomenti in base alla conversazione, in cui siamo coinvolti. Anche noi, quindi, ci dotiamo di congetture per sopravvivere. Le maledette maschere. Il problema, che ci attanaglia da ormai un’eternità e da cui, a quanto pare, non riusciamo a uscirne. Giorgio era spaesato, perché un bel giorno qualcuno aveva deciso di buttare via il suo baule di costumini e travestimenti, ormai demodè e sciatti. E quella persona… ero io. Era arrivato il momento di vivere per davvero. Non poteva più rimandare.

Posso almeno tenere questa? …questa è la mia preferita, non se ne accorgerà nessuno, se la risparmierai…

Quando conobbi Giorgio, quella fu la frase che mi rimase più impressa. Ero ormai esperta dell’arte del decluttering ed ero abituata alle crisi isteriche delle persone, che non volevano staccarsi da quei loro orrendi travestimenti, ma Giorgio mi intenerì. Lo guardavo. Nudo, per la prima volta, di fronte allo specchio del suo grande armadio, ormai svuotato dalla mia perizia. Iniziò a piangere silenziosamente, senza emettere un suono. Non ero abituata. La mia esperienza di lungo corso era avvezza a qualsiasi manifestazione di tristezza, sgomento o paura. Giorgio era diverso. Era fondamentalmente una persona buona, bisognosa solamente di un poco di amore. Le maschere non danno quel tipo di affetto. Infondono sicurezza e audacia, ma non calore ed empatia vera. Ciò di cui parlo è quello stimolo caldo, che proviene dai puri di cuore, un impulso irrefrenabile di emotività vera, che spazza via ogni atteggiamento posticcio. Sentivo che avevo il compito di insegnarglielo. Malgrado non fosse tra i servizi di mia competenza, decisi di disegnare su quello specchio un sorriso, che lo riportasse ai pensieri di infanzia, quando il suo armadio era pieno solamente di giocattoli e macchinine.

Lo vidi fissare attentamente lo specchio e rilassare a poco a poco il viso. Si stava distogliendo da quello che aveva perso e si stava finalmente concentrando su ciò che stava guadagnando. I suoi occhi erano ormai asciutti, le labbra non più tirate e le pieghe delle guance si erano rilassate, donando alla pelle del viso un aspetto maggiormente tranquillo. Il mio compito era finito. Decisi di lasciare la camera, senza farmi notare.

In bocca al lupo, Giorgio!” – sussurrai, chiudendo la porta dietro di me.

Stories

Al Parco Europa dissi “Addio”

Vengo qui tutte le mattine. Che faccia freddo o che si muoia dal caldo. Tutte le mattine, prima di recarmi all’università, salgo con la macchina la strada della collina, che porta al Parco Europa. Là mi aspetta la solita panchina. Ormai potrei inciderci il mio nome sopra lo schienale. Tanto… è sempre lì che mi aspetta. Vuota. Addirittura, quei pochi passanti, mattinieri come me, che portano a spasso il cane, si siedono altrove, su altre panchine posizionate precisamente alla stessa distanza tra di loro, lungo il viale. Tutti sanno che quella panchina è la mia. Me la sono guadagnata.

Al Parco ci venivo sempre con Teo. Un amico, un amante? Ancora oggi mi chiedo cosa sia stato. Potrei descriverlo come fece Edmond Rostand riguardo al bacio:

<<Un bacio, insomma, che cos’è mai un bacio? Un apostrofo rosa fra le parole “t’amo”.>>

Ed era stato proprio un apostrofo Teo. Così poco accentuato, così breve, che mi aveva lasciato quel sapore amaro in bocca, che nessun bacio dovrebbe mai lasciare.

Era entrato nella mia vita improvvisamente e, altrettanto, ne era uscito.

Avevamo cominciato ad incontrarci al Parco Europa, anche più di una volta al giorno. Quel posto era diventato il rifugio silenzioso e tranquillo, in cui stare insieme. Nessun occhio indiscreto, nessuna parola fuori luogo ci raggiungeva. Nessun giudizio, nessuna critica. Semplicemente accoglienza; il Parco ci voleva bene, aveva avuto pietà di noi, come anche i nostri cuori, che inizialmente si nascondevano dietro mille scuse e giustificazioni. La panchina, che ora mi spetta di diritto, era la nostra.

Ecco come me la sono guadagnata.

Inizialmente era tutto cominciato da una sottile condivisione: Teo, che aspettava alla panchina, solitamente di mattina presto, mentre poi al pomeriggio tardi, io e il mio zaino scrutavamo il panorama perfetto di Torino, in attesa della sua venuta. Come era saccente Torino, vista da lassù. Aveva l’aspetto di una città indottrinata dai migliori professori. Così boriosa e arrogante, percepivo che mi osservava a sua volta. Odiavo quel confronto, ogni volta che attendevo Teo. Occhi negli occhi, non distoglievamo lo sguardo. Volevo averla vinta sulla sua strafottenza. Come si permetteva di dubitare di me?

Non appena Teo arrivava, quella tensione altezzosa svaniva. Tornava tutto a risplendere, a essere così ospitale e confortevole. Teo creava la magia e io mi nascondevo dietro. Non potevo farne a meno.

Reputavo ogni alba e ogni tramonto il momento giusto, affinché ricevessi quella bramata notizia: la decisione di Teo, il suo sì. Mi sono resa conto che non attendevo il suo arrivo, aspettavo solamente il momento in cui avremmo lasciato per sempre il Parco Europa, per scendere a Torino, in mezzo alle persone, senza più nasconderci. Avremmo dovuto farlo, prima o poi. Se da un lato, tra quei viali mi sentivo al sicuro, dall’altro, ero stufa di vivere dentro ad un triste surrogato di quello che reputavo una storia d’amore. Non potevamo dire le bugie per sempre, celare quello che ci faceva vergognare a tal punto da darci l’appuntamento nel medesimo posto, ormai da mesi.

Mi arrabbiavo. Continuavo a fare quei discorsi con quello splendido angolo di Torino, che mi pareva disegnato. Ci litigavo e così, mi arrabbiavo ancora di più. Era uno scontro tra me e lei, che non voleva sentire ragioni, mi veniva contro con tutta la sua gelida collera. Ma che potevo farci? Ero in balia di una città e del suo abitante più scorretto. Mi sentivo impotente, volevo contrastare uno dei due, ma ognuno di loro mi sopraffaceva, senza fare alcuna fatica.

Il Parco era il mio unico amico, all’interno di quel posto così tranquillo e riparato, mi sentivo protetta.

Una di quelle mattine, mi recai alla mia panchina prediletta. Lo aspettai a lungo. Saltai la prima ora di lezione. Poi la seconda. Alla fine se ne andò tutta la giornata. Rimasi come inebetita a fissare il panorama tutto il giorno. Il sole, nel frattempo, danzava in cielo, ruotando per tutta la volta. Dialogavo mentalmente con Torino.

Lui non verrà…

Sentivo quelle parole sussurrate. Taglienti. Fredde. Cattive. Come solo quel paesaggio sapeva essere. Bello e dannato, insensibile e distaccato. Non gliene fregava nulla di me e del mio modo devoto di attendere.

Quanto sei cretina… sei ancora lì? Prendi lo zaino e tornatene a studiare… magari diventi più furba di così!

Osservavo la vista di fronte a me con disprezzo, cosa ne sapeva di me?

Teo quel giorno diede per la prima volta buca al nostro quotidiano appuntamento. Si comportò allo stesso modo i giorni seguenti.

Mi lasciò in eredità quella panchina, al Parco Europa, che io difendo gelosamente. Nessuno me la porterà via.

Mi siedo qui tutte le mattine. Che faccia freddo o che si muoia dal caldo. Nessuno mi porterà via ciò che resta di lui. Guardo sempre verso Torino e ascolto le sue parole di biasimo nei miei confronti.

Rispondo: “Addio, Teo”

Stories

What’s up in this blog?

Nice to meet you!

Ciao World Wide Web

Il blog di Red and Blue atterra nel gigantesco mondo della tripla W!

Vi starete chiedendo come mai siamo qui o perché esistono ancora persone che hanno la malsana idea di aprire un blog (“Ce ne sono mille, no?”), ma soprattutto vi chiederete come faremo a non essere uguali a tutti gli altri blog esistenti su sacrosanta madre-Terra-digitale.

Niente paura, diceva un famoso cantante. Non vogliamo raccontarvi cosa mangiamo attraverso foto ultra-mega-fighe o fotografarci con addosso uno dei capi esibiti all’ultima Milano Fashion Week!

Vogliamo RACCONTARE, DISEGNARE, ESPRIMERE, in uno spazio in cui essere semplicemente NOI.

Red and Blue imprime con PAROLE ILLUSTRATE piccoli ritagli di vita, pillole d’amore, amicizia e lavoro. SCRIVE di musica colorata: quella da ascoltare dopo una giornata impegnativa o in vacanza. PARLA di libri, li consiglia e li raccomanda in base a quello che si è provato durante la lettura.

Scrivere e disegnare è ciò che più ci rappresenta, ciò che più identifichiamo con la parola “passione”.

Dietro a Red and Blue non ci sono copywriter, fotografi o registi, ci siamo noi, attraverso i nostri testi e la nostra arte.

Buona permanenza nel nostro habitat 😊