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Il viaggio di maturità

Questo racconto è ispirato a una STORIA VERA 🙂

Estate 2006. Quella dei mondiali, sì. Quella dei mitici campioni del mondo e po-po-po-poooo, esattamente quella là.

“Portiamola con noi! Sarà il suo viaggio della maturità!”

Le mie compagne di classe si erano già organizzate diversamente, lasciandomi alone durante l’estate più bella delle scuole superiori, quella dopo l’esame di maturità. 

Vedendomi triste e sconsolata, la mia squadra di pallavolo deve aver provato abbastanza pena per la mia situazione di <<ragazzina-giovane-e-abbandonata>>. 

E così? Ci hanno pensato loro!

Da un’azzardata idea del mio capitano della squadra, si è finite a partire per Cattolica. 

La meta del mio viaggio di maturità, Cattolica, una ridente cittadina della riviera romagnola, dove da maggio a ottobre il sole spacca a palla, come la musica dei locali notturni, che esplode a manetta nella stagione estiva. 

Mica erano alte le pretese nel 2006. Anzi, ringrazio ancora i miei genitori, che mi hanno dato il permesso controfirmato con tanto di sigillo papale, per partire e lasciare il nido per dieci giorni o poco più. 

Ma che Grecia, Spagna o Ibiza! Certo, certo. Quelle destinazioni potevi osservarle da lontano sui cataloghi turistici di Mater e Pater familias, ma, anche munendosi delle più nobili doti di diplomazia e persuasione, non avresti mai strappato quel tanto agognato “sì”. Toccava per forza ricoprirli di dolce gratitudine filiale e inchino di cortesia, in modo da non ledere la loro maestà.

“Allora si parte? Dai su, sbrighiamoci, i campi da beach ci aspettano!!!”

Questa era la tonante voce di Tipa, migliore amica del Capitano, nonchè miglior centrale della squadra, che si era occupata di mettere a punto il piano della vacanze. Tutto molto semplice e facile da memorizzare. La nostra giornata tipo si snodava come segue:

11.00 -14.00 Alternanza Beach volley/Sun

14.00 Pranzo frugale

15.00-19.00 Alternanza di Beach volley/Sun

19.00-oranonspecificata Delirio

Insomma, un programma faticoso e difficile da sostenere per troppo tempo, no? (faccina furbetta che ammicca)

Ci trovammo nella piazzetta del paese, il tipico ritrovo per le partenze verso qualsiasi luogo o missione per conto di Dio. 

Eravamo io, Tipa, il Capitano e Christina, amica di Tipa/new entry del gruppo, con il compito di portarci in giro, tra le discoteche migliori della riviera.

Christina non era il suo vero nome. Ora che ci penso… manco me lo ricordo il suo nome. Era per tutte noi Christina e basta! La chiamavamo così, perché era la copia di Christina Aguilera, versione anni 2000, la nostra punta di diamante, il lascia-passare per accedere ai privè di tutti i locali, scroccando cocktail gratis a chiunque. Tremende, lo so!

I suoi capelli lunghissimi, biondi e leggermente curly erano una specie di calamita ovunque andassimo, tanto che, a volte mi fermavo a chiedermi, se fosse un viaggio di maturità o una specie di ritiro per imparare a fare la bodyguard professionista.

Il viaggio per arrivare a Cattolica fu epico. Tipa era fiera di poter guidare la station wagon del suo papi. Non stava più nella pelle. 

“Montate in macchina, eh su!”

La macchina, caricata come se dovessimo lasciare le nostre case per sempre verso l’Australia (e non Cattolica), si appropinquava a mettersi in moto. Sì, era una macchina vivente. Pensavamo avesse un’anima, grande, bella e colorata, come quei fantastici pulmini Volkswagen, simbolo degli hippie negli anni ‘70. Le parlavamo pure, rivolgendole buffi nomignoli e coinvolgendola nella conversazioni del tragitto. No, no, non ci eravamo fumate nulla, eravamo solo orgogliose di quel mezzo di trasporto, che sotto un sole bollente come la piastra per capelli di Tipa, ci scarrozzava a destra e a manca. Quindi, con il mood un po’ vacanziero, un po’ avventuriero pazzo, siamo finalmente partite.

“Una nuova vita ci attende, ragazze!” – gridava Tipa

“Tipaaaa, stiamo portando la nostra squinza a fare il viaggio di maturità!” – le urlava dietro il Capitano

Eravamo già mezze rintronate.

Me ne stavo accucciata sul sedile posteriore della macchina del papi di Tipa, carica, euforica e onorata, di essere portata a spasso da tre ragazze più grandi di me, che avevano ormai alle spalle l’iniziazione del viaggio di maturità. Secondo voi, come potevo non essere alle stelle dalla gioia?!?

Il viaggio proseguiva. Sognando il mare. Attendendo di vederlo spuntare all’orizzonte. Odorando l’aria. Chiacchierando a più non posso, scambiandoci idee e progetti per quella vacanza, da lunghi mesi programmata!

“Chissà quanti ragazzi fighi a Cattolica!!!”

L’argomento più scottante era ovviamente quello, ma il colmo più assurdo era che andavo in vacanza con tre single di 23 anni, mentre la sottoscritta di 18 era nel pieno di una relazione amorosa, tendente al matrimoniale, ed era anche molto, ma molto innamorata. Da incoscienti, lo so! Da deficienti, anche! Questa cosa mi faceva morire dal ridere, perché mi sentivo completamente esonerata dal discorso boys, volevo solamente poter dire anche io: 

“Esatto, sono in viaggio di maturità…. esame finito… andata bene, dai… sì, ora voglio rilassarmi!”

Insomma, il fine era incredibilmente puerile. Darmi un tono. Sentirmi grande. Ormai le superiori erano solamente un ricordo, lontano. 

Le conversazioni proseguivano, inframmezzate da pitstop all’autogrill e un pranzo veloce innaffiato da Coca-cola e caffè, rigorosamente espresso. 

Ad un tratto, sentimmo un rumore sinistro provenire dal cofano della macchina. Sembrava quasi un colpo di tosse, quando ad esempio il sorso d’acqua va per traverso e si cerca di recuperare il ritmo della respirazione.

“Tipa, accosta, accosta… tra 150 metri c’è un altro autogrill!”

L’area di sosta ha salvato tutte noi, prontamente Tipa inserisce la freccia a destra e inizia ad avviarsi verso l’autogrill.

Silenzio. 

Ogni tipo di conversazione era stata sedata dalla preoccupazione, che la nostra amica macchina potesse non farcela a concludere la grande traversata della Pianura Padana. 

Alle pompe di benzina, manco a farlo apposta, ci aspettava un ragazzo, che di mestiere era proprio meccanico. Si prodigò subito nell’aiutare quattro donzelle sole e sperse, con la turba psicologica di non riuscire ad arrivare alla destinazione della vacanza. 

“Ragazze, non preoccupatevi… ce la farete ad arrivare…” – ci disse con un mezzo sorrisetto – “meno male che avete trovato me, sennò cosa avreste fatto?”

“Avremmo chiamato il carro-attrezzi!” – esordì il Capitano, subito sgomitata da Tipa che le lanciò uno sguardo di rimprovero. 

Il messaggio era chiaro: cerca-di-far-la-brava-sennò-siamo-nella-cacca-più-marrone! 

Il ragazzo alzò le spalle, non badò troppo all’uscita poco felice del Capitano. Si mise subito al lavoro, dicendo – “Per fortuna porto sempre con me gli attrezzi del mestiere… dando una prima occhiata, sembrerebbe solamente sporco l’iniettore… ora vediamo eh…”

Ci sedemmo tutte e quattro sul marciapiede, appoggiando il viso sulle mani e i gomiti sulle ginocchia. Osservavamo. In attesa di un suo cenno che la situazione problematica fosse rientrata. Sembravamo quattro piccoli animaletti, che lentamente rosolavano al sole di agosto. 

“Ragazze, problema risolto! Potete rimettervi in marcia!”

Lo ringraziammo con centomila ossequi, promettendo di dedicargli una statua d’oro se mai da adulte fossimo diventate ricche!

Grazie a lui la vacanza era salva!! Non ricordo proprio nemmeno il suo nome, accidenti!

Una volta arrivate a Cattolica, bisognava prendere confidenza con la location e il nuovo appartamento. Era il momento della corsa ai letti.

Il Capitano ci superò sulle scale, strappando dalla mano di Tipa il mazzo di chiavi. Con un gesto scattante, infilò nella toppa la chiave di ingresso e corse alla ricerca della camera singola, quella con un letto solo.

“Chi prima arriva, meglio alloggia! Non si dice così!?!” – cantilenò il Capitano.

“Dai Manu, stiamo insieme nella camera con il letto matrimoniale, dai, come alla gita delle medie…please! Bei tempi quelli!!!” – rispose Tipa, che guardava il Capitano con occhi imploranti e realmente dispiaciuti.

Infine, decidemmo le varie sistemazioni nelle camere tutte e quattro insieme, da brave amichette, quale eravamo. Tipa e Capitano si sistemarono nella camera da letto matrimoniale. Christina si prese la stanza “single” e io finii in una camera con un letto a castello, di cui utilizzai il piano più basso per le varie trousse e scatole di scarpe, che mi ero portata.

“Ragazze, dobbiamo ispezionare un po’ la situazione, eh! Diamoci una mossa e usciamo!”

Christina voleva uscire a tutti i costi e non la teneva più nessuno. 

In un’ora e poco più tutte e quattro sfoggiavamo i copricostumi più colorati di Cattolica.

“Questa estate non la ferma nessuno!”

Le giornate erano tutte uguali, ma in senso buono, anzi ottimo!

Ci si svegliava tutte le mattine alle 8, anche se la maggior parte delle volte si usciva dal locale e si andava a dormire in spiaggia, direttamente. Le prime ore del mattino erano dedicate ad un pisolino ristoratore, che ci rimetteva al mondo in poco tempo. Nel frattempo, si iniziava la “giornata lavorativa”, come la definiva Christina, che consisteva nell’abbronzare ogni parte del corpo in modo omogeneo, senza tralasciare nulla.

“Si lavora eh qui? Su, su, voglio vedervi belle nere!”

Christina ci batteva i ritmi, insomma, ma era quella su cui l’abbronzatura si posava maggiormente. Poi c’era Tipa, che tentava di tener testa ai livelli assurdi di tintarella di Christina, mentre io e il Capitano sembravamo più due aragoste, che due ragazze baciate e dorate dal sole…

Dalle 11 in poi iniziavamo a sfidare tutta la spiaggia a beach-volley! Christina organizzava le varie partite e reclutava le squadre sfidanti (oramai la nostra fama ci precedeva in tutto il lido), mentre io, Tipa e il Capitano creavamo schemi e strategie da vere pallavoliste instancabili.

Una di quelle mattine, tra una partita e l’altra, iniziai a sentirmi un pochino sottotono. 

“Che ti succede?”

“Non saprei… sento tanto, troppo caldo!”

Tipa si voltò a guardarmi, poi preoccupata indicando il mio decolletè – “Chiara… oh santo cielo, guardati…”

Dal collo in giù ero piena di bollicine dalle varie dimensioni. Uno spettacolo per niente piacevole. Mi guardai inorridita e scappai in bagno a rinfrescarmi. Poi raggiunsi il mio asciugamano e mi misi subito il copricostume addosso. La mia pelle mi stava implorando di darmi una calmata e di difenderla dai raggi cattivi della palla di fuoco. Quella volta lì avevo proprio esagerato. Da bianco mozzarella a rosso gambero fu un attimo, anche se non lo credevo assolutamente possibile! Shame on me!

Durante il pomeriggio non potevamo esimerci dal fare un altro sonnellino, per caricarci al meglio in vista della serata. A cena un pasto veloce, che prevedeva yoghurt e frutta, a volte pizza, altre insalata di riso. Insomma, quello che c’era, ma soprattutto quello che era più velocemente a portata di mano e di preparazione. Subito dopo cena, si passava ai preparativi. 

Giorgio Armani, spostati! Dolce & Gabbana, levatevi! 

Non si scherzava mica! 

Penso che provavamo a testa almeno intorno ai cinque outfit diversi. Tutte noi, tranne ovviamente il Capitano, che era sempre la prima ad essere pronta, passando il resto del tempo a incitarci a sveltire tutte quelle manfrine stupide e superficiali. 

Ci sembrava di avere qualsiasi locale a disposizione, ogni sera almeno due luoghi diversi dove ballare e divertirci. La più bella serata però… la passammo alla Baia Imperiale, la gigantesca discoteca di Gabicce. Era l’ultima sera, quella prima del ritorno a casa. 

La Baia è qualcosa di spettacolare ancora oggi, se poi ci vai a 18 anni ed è il 2006, bè come non immaginare le emozioni che procura!

La navetta ci scaricò davanti all’entrata. Quanto eravamo estasiate di poter celebrare là la nostra ultima notte! Abbiamo ballato in tutte le sale, qualsiasi genere di musica. La canzone che però porto ancora oggi nel cuore e che ogni qual volta sento mi fa ripensare a quella sera è “Love Generation” di Bob Sinclair… 

Oltre a farmi ricordare quella nottata, mi fa anche tornare in mente i vari spintoni che tutte e tre regalavamo in modo carino e coccoloso ai tanti ragazzi, che si fiondavano su Christina, come api sul miele. Eravamo diventate le sue bodyguard a tutti gli effetti!

“Dai, su, levateviiiii”

“Grazie ragazze, cose farei senza di voi??”

Christina continuava ad essere la nostra prima ballerina e il nostro compito era quello di preservarla, anche se era in grado di farlo benissimo da sola, ma tutte noi eravamo unite nel proteggerci a vicenda. 

Verso la fine della serata, abbiamo poi fatto amicizia con un gruppo di ragazzi. Tutti insieme, uscendo dalla Baia, ci siamo diretti verso il mare. Con brioche appena sfornate e termos di caffè, che i ragazzi erano passati a prendere da casa, siamo corsi verso la spiaggia e abbiamo ammirato l’alba, quella che stava nascendo sulla mattina del ritorno a casa.

Tra abbracci, foto mezze sfocate e poco nitide, piccoli bagni e corse piene di sabbia, abbiamo salutato quel nuovo giorno, anche se l’ultimo di quel viaggio stupendo.

“Sole, aspetta un attimo… non così in fretta.. non vuoi riposarti ancora un po’, invece di salire subito nel cielo?” – era un piccolo pensiero, che nasceva tra me e me, mentre ce ne stavamo tutti insieme abbracciati in riva al mare. In quel momento, erano finiti gli schiamazzi e le urla, che si erano sentite fino a poco tempo prima, mentre ci rincorrevamo l’un l’altro. Avevamo lasciato la parola al sole, toccava noi stare zitti e ascoltarlo. 

Il viaggio di maturità è stato questo: solidarietà femminile, risate, amicizie e incontri, discorsi seri e meno seri, empatia, divertimento. Tante cose racchiuse in pochi giorni, ma che mi hanno lasciato inevitabilmente un segno, che porto addosso ancora, come una specie di tatuaggio invisibile, dopo ben 15 anni!

Chissà quali saranno i viaggi che i “maturati” del 2021 intraprenderanno… dove andranno? Quali esperienze si porteranno sulla pelle negli anni avvenire?

Sarei davvero curiosa di leggere altri racconti del genere!

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Trovarsi in mare aperto era il sogno di una vita…

Trovarsi in mare aperto era il sogno di una vita, che si stava realizzando.

Ho sempre invidiato i marinai, che lasciavano i porti delle loro città natie senza sapere quando mai sarebbero tornati a casa. Mi rendevo conto che il sapore dell’abbandono mi aveva distrutto e sedotto il cuore allo stesso tempo, il miscuglio di emozioni che ne erano scaturite negli anni mi aveva portato a concludere che, essendo figlia di questo rifiutato, seppur esistente, abbandono, mi ci ero ormai immersa a tal punto da riconoscerne quasi la paternità del mio essere. Così mi atteggiavo a marinaio: entrai nella parte così bene, che accettai l’invito di alcuni amici a trascorrere le vacanze in mare aperto su una barca di uno di loro. Mi sentivo realizzata.

Addio terraferma, addio cemento, addio case e palazzi, per una settimana solo acqua! Diedi il benvenuto ad una nuova Chiara e salutai il bellissimo mare che per tutta la settimana ci avrebbe ospitato.

Alessandro era il responsabile della rotta. Ci affidammo completamente alla sua esperienza di skipper provetto. Questa vacanza era quello che ci voleva: relax assoluto e stress quotidiano dimenticato dentro le mura di casa. Ma la mia vacanza non poteva essere solamente serenità al 100%, eh no, sennò non mi sarei divertiva abbastanza!

I primi giorni e notti trascorsero velocemente.

Il terzo giorno Alessandro ci avvisò di aver smarrito la rotta; disse che non capiva più che scia stesse seguendo la barca e non si ritrovava con le indicazioni che gli forniva il gps. Brutto, brutto segno.

Il tempo iniziava a guastarsi ed era già sera. Alessandro e tutti noi decidemmo di capire come poter imbroccare la direzione giusta verso la terraferma. Quando ci si trova in mare aperto e, addirittura, quando imbrunisce, non è così semplice!

Il cielo era un tripudio di sfumature azzurrognole, le nubi si mescolavano tra loro adagio, entrando l’una dentro l’altra, per ottenere una nube ancora più grande, ancora più scura. La luce ormai era quasi stata inghiottita dall’orizzonte. Continuavo a scrutare il cielo e non mi piaceva quello che vedevo. L’acqua del mare iniziava ad agitarsi, non riuscivo più a ritrovare la pacatezza, che il mare ci aveva regalato fino alla mattina passata. La barca sobbalzava mano a mano che solcava le onde, che diventavano sempre più impervie e alte. L’andamento che aveva preso era singhiozzante e incerto. Iniziavo ad avere la nausea: il moto ondulatorio misto ai guizzi dello scontro della prua con le onde mi stavano facendo tremare lo stomaco. Eravamo tutti basiti, ci sentivamo impotenti, iniziammo davvero a temere il peggio.

Non era possibile che stessi vivendo davvero quella situazione, non riuscivo e non volevo crederci. A breve sarebbe terminato tutto.

Il mio spirito era ancora fiducioso, mi diceva che il mare era buono, era sempre stato dalla mia parte e non aveva sicuramente intenzione di scatenare una tempesta per metterci in difficoltà. Voleva giocare, voleva solamente farci strizzare un po’.

I minuti passavano come ore, sembravano lunghissimi e la situazione peggiorava senza fare sconti.

Quando si ha un problema, di qualsiasi genere, il tempo scorre troppo lento, quasi a far sostare le sensazioni sulla pena e sulla sofferenza che proviamo nel risolvere un certo tipo di questione. È quello che stava capitando a noi. Era come trovarsi dentro una sorta di ovatta, dove ingegno e sensi erano immobilizzati e non collaboravano a farci trovare una soluzione.

Ad un tratto Alessandro perse le staffe e gridò:

Cazzo, ragazzi, se non ci muoviamo a fare qualcosa, la barca si ribalterà e ci ritroveremo in breve tempo a far da cena ai pesci in fondo al mare! Volete azionare il cervello, perdio!!!

Scossi da quel disperato SOS, dissi di getto “Mettiamoci i salvagenti!”. Non potevamo fare altro che resistere e tentare di scampare al brutto scherzo che ci stava giocando il mare. Dopo aver messo i salvagenti, iniziammo ad assegnarci compiti a caso, sia per tenerci occupati, sia per far vedere all’uno e all’altro, che muovendoci su e giù per la barca, eravamo ancora vivi.

Il mare era un tutt’uno con il cielo: si era tramutato in una specie di blob gigante, tutto nero, scuro, quasi non sembrava più fatto di acqua, ma di una sostanza melmosa e oscura. Non avevo mai visto nulla del genere. Ci teneva in pugno. I nostri occhi erano venati di terrore, non riuscivo a incrociare lo sguardo di nessuno, perché non volevo ancora realizzare che tutto quello che ci stava capitando fosse reale. Porca vacca, era proprio come il mio sogno ricorrente.

Fin da bambina, ho sempre sognato che prima o poi il mare mi avrebbe inghiottito. Le tempeste sono sempre state il mio incubo peggiore, una di quelle cose che mi sono sempre augurata di non vivere mai, eppure questa volta non avevo scampo.

La barca era come impazzita, un puntino immerso dentro ad una voragine. In mezzo a tutto quel nero, non eravamo più visibili da nessuno, nemmeno da Dio. Su e giù, su e giù. Le acque continuavano a strattonarci, poi ad alzarci, poi a farci scivolare creandoci un vuoto che ci pizzicava con violenza le budella e lo stomaco. Era come essere nelle mani di un gigante. Sembrava un film dell’orrore.

Poi l’albero maestro si spezzò e cadde sopra la barca dividendola in due pezzi. Sentii solo un grido, che insieme alla barca squarciò il nostro sentirci ancora in vita. Non ricordo nemmeno chi urlò così forte.

“Buttateviiiiiiiiii”

Istintivamente congiunsi le braccia e le stesi, chinai la testa e mi buttai. Ciiiiaf. Non sentii più nulla.

Venni shakerata dall’acqua, sbattuta, scaraventata chissà dove. Mi faceva male la testa e continuavo a non sentire nulla. Mi amalgamai completamente al mare, ero diventata una sua parte, ero forse diventata liquida come la sua acqua, non sentivo rumori, non percepivo dolore, non sentivo più il mio corpo, ero davvero acqua allora. Forse avevo perso i sensi, perché non ricordo più niente. Mi svegliai che ero riemersa non so come!

Forse il salvagente aveva avuto la meglio. Ciò che vidi mi fece ancora più paura del tuffo disperato, che avevo fatto un attimo prima. L’acqua mi rimise sotto di lei. Avevo avuto solamente il tempo di vedere che la barca non c’era più, che tutto il gruppo di amici era stato inghiottito da quella massa informe e che il cielo era ancora più nero di come me lo ricordavo.

Mi trovavo nuovamente sott’acqua, immersa in quella poltiglia bruna. Il mio corpo non si arrendeva, continuavo a dimenare braccia e gambe più forte che potessi. Non sentivo la stanchezza, continuavo ad inviare l’impulso di nuotare, nuotare, nuotare. Non importava come, ma dovevo riemergere per prendere fiato. Quel continuo scuotimento mi stava facendo soffocare.

La tempesta stava squarciando l’acqua, non le dava tregua ed io ero solamente una minuscola pedina, vittima di quella lita furibonda che era in atto. Non ne potevo più, ma ormai era una sfida aperta, non potevo arrendermi.

Continuai a lottare con il mare, sembrava una lotta greco-romana, dove le regole però non venivano rispettate. Si sapeva già chi avrebbe avuto la meglio.

Poi un’onda mi sommerse, non ebbi più scampo.

L’ultima immagine che conservano i miei occhi è l’elevarsi di un blocco acquoso, ancora più alto delle onde con cui stavo cercando di rimanere a galla. Quell’onda era ancora più cattiva e infame delle altre, si alzò come un cavallo sulle due zampe posteriori quando impenna, e mi ricoprì.

Ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh!

Emisi un urlo, aprendo gli occhi di scatto!

Vidi le lenzuola al bordo del letto, il cuscino per terra… Era solamente un sogno, di nuovo quel maledetto sogno ricorrente, che in certe notti tornava a trovarmi!