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Castagne e Coca-cola

Cari lettori,

condivido con voi il mini-racconto, che avevo inviato lo scorso inverno alla redazione del Concorso letterario nazionale “Parole sul mare” 2020 (VI edizione). Tema del concorso: il tempo. Il racconto si è posizionato al 7° posto (su 41 storie), risultato che mi ha riempito di gioia!

La storia ruota attorno ad una conversazione tra amiche, confidenze intime, pensieri più o meno seri. Una domenica sera. Davanti ad un piatto di castagne e due bicchieroni di Coca-cola… accostamento strano, vero? Se non vi convince, fate un tentativo, vi ricrederete!

Come sempre, la storia è stata illustrata da Giulia!

Buona lettura! Mi farebbe piacere leggere i vostri commenti 😉

“I luoghi comuni sul tempo hanno scandito la nostra vita e, ormai, arrivati a questo punto si sprecano. E se citassi frasi del tipo: <<Il tempo è denaro>> o <<Chi ha tempo non aspetti tempo>>, finirei subito con il castrare la domanda che volevo porti da un po’ di… ohhh… lasciamo stare!” – provai a innescare quella conversazione con Claudia lo scorso inverno. Era una domenica sera: proprio quel preciso istante, in cui entrambe pensavamo all’indomani con goffaggine e mollezza di spirito. Provavamo una certa ansia, in attesa del lunedì mattina, ma nessuna delle due voleva deliberare alcuna affermazione simile riguardo all’argomento. Avevamo messo in forno un bel sacco di castagne, volevamo finire in bellezza il weekend, discutendo sia dei massimi sistemi della vita, ma anche di che colore pittarci le unghie, prima che avesse inizio un’altra settimana lavorativa. Sbucciando una castagna, appena tolta dal forno, e sorseggiando un bicchiere di Coca-cola, per buttare giù il boccone impastato di saliva, avevo cominciato a girare attorno ad una questione assai spinosa, ma, come si è potuto notare, fin dall’inizio, i miei pensieri si facevano prendere gioco dai giri di parole e così, aspettai.

“No, per favore… continua” – mi disse Claudia.

“Intendevo dire… poco fa… ma cosa è che non cambia mai nelle nostre vite? Siamo figlie di filosofie alla Eraclito-maniera… panta rei… tutto scorre… ma è da un po’ di giorni che rifletto… faccio un sogno sempre uguale… da ormai anni, Cla, lo sai? …te l’avevo mai detto?” – parlai a Claudia del mio sogno ricorrente. Da ormai cinque anni, a periodi alterni, non facevo che addormentarmi, ritornando sempre a sognare una persona in particolare, un ragazzo. Il suo nome era Diego.

“Elena, cosa c’è che ti turba? Cosa c’entra un sogno con i cambiamenti della vita?”

Le castagne erano bollenti. Non riuscivo a pelarle. Aprivo leggermente il guscio con le unghie, poi lasciavo cadere sul tavolo quella poveretta, scuotendo a più non posso le mani. Niente da fare. Toccava attendere un altro po’. Mi riempii ancora il bicchiere di Coca-cola, bevvi due bei sorsi e continuai.

“Si dice che col tempo tutto cambia, tutto passa… tutto scorre, appunto! Giusto?”

“Sì, e allora?”

“No, non è vero. Il tempo passa e il suo passaggio si trascina con sé tante, ma tante cose. Il suo compito è quello di agire come un fiume, che scorrendo nella terra porta fino in fondo al suo cammino tutto quello che trova, durante il suo viaggio. Idem, anche questo vale per la nostra vita. Alla fine di tutto, ci ritroveremo in fondo al nostro fiume, osservando ogni singola molecola, emozione, respiro transitatoci davanti agli occhi. E sarà mutato! Ogni emozione muta, non proviamo mai lo stesso sentimento, la stessa gioia, lo stesso dolore per ciò che è stato vissuto. Il tempo passa e muta ogni cosa che non sia il presente. Lo modella, lo plasma e ce lo restituisce… di giorno, in giorno, sempre più diverso.”

“Sì, sono d’accordo, Elena… ma non riesco ancora a capire dove vuoi arrivare!”

Diego fu per me un amore speciale, ma non lo capii subito. Eravamo giovani, tanto. Tanto giovani, da avere visi come angeli, ma cuori già abbastanza emancipati. Ci rincorrevamo, respingevamo e amavamo. Tutto allo stesso tempo. Non avevamo regole, malgrado uno dei due cercasse sempre di istituirle. Tentavamo di rinchiuderci l’uno nella gabbia dorata dell’altro, ma fallivamo. La fretta di crescere stava davanti a noi, ma non si faceva prendere. Continuavamo a rincorrerla. Nel frattempo, continuavamo ad amarci, a progettare e a disfare quello che decidevamo di iniziare a mettere in piedi. Alcuni ci dicevano che ci eravamo trovati troppo presto. Altri, che eravamo in ritardo nelle conquiste, che conseguivamo. Io sempre un passo, seppur minimo, davanti a lui. Ma ci amavamo. Diego era un bambino, alla ricerca della sua mamma perduta. Io, invece, una piccola donna, che voleva farsi coccolare, come se fosse ancora una bambina. Non riuscivamo ad insegnarci le lezioni, di cui avevamo bisogno. Stavamo insieme con tutta la passione, che avevamo in corpo, ma non appena quella finiva, ci allontanavamo. Ricominciava la corsa. Diego, che rincorre Elena. E poi. Elena, che corre dietro a Diego. Il gioco ricominciava. Quando sarebbe finito? Trascorsero anni, tentando la fortuna. Eravamo entrambi desiderosi di arrivare al montepremi finale. Chi dei due avrebbe avuto la meglio?

“C’è una cosa che il tempo non può cambiare… solo quella cosa là… il tempo può fagocitarla, ma non appena la risputa fuori, potrai renderti conto che è rimasta uguale a prima. Solamente un po’ appiccicosa e sbavata… ma è la medesima cosa! Sto parlando del senso di colpa…”

Claudia mi guardò basita. Masticava la castagna, ancora calda, stando attenta a non scottarsi guancia e lingua. Era un momento abbastanza catartico. Quasi come a non voler svegliare nessuno, quando si rincasava tardi la notte. La stessa accortezza viene utilizzata, quando si mette in bocca un cibo troppo bollente. Piano, piano, la lingua passa il pezzo incriminato da una parte all’altra della guancia, palleggia la palla rovente di qua e di là, cercando di scegliere la guancia più adatta, dove fare gol. Non mi feci intimorire e continuai imperterrita a raccontare.

Diego era il mio senso di colpa, che si traduceva in un sogno, sempre uguale, intermittente, ciclico. Diego era quella pedina, che il tempo non poteva mangiare. La passava all’interno del suo scanner, ma non riconoscendola come edibile, la lasciava intatta e libera di vagare nel subconscio, per poi finire come film-colossal, sempre in programmazione nelle notti più agitate.

“Il senso di colpa se ne fotte del tempo… cosa gliene frega? È immortale… proprio come lui! Non subisce modifiche, non sente ragioni, rimane lì a farti compagnia… e quando pensi che il-famoso-tempo ci sia passato sopra… torna a dar fastidio più di prima!”

Claudia non poté che darmi ragione. Volle sapere qualsiasi cosa del mio sogno ricorrente e mi chiese se ci fosse una connessione tra quello e il senso di colpa.

“Credo proprio di sì! …vedi che te lo dico sempre che avrei dovuto diventare una strizza-cervelli, invece che una semplice impiegata?” – scoppiammo a ridere all’unisono, soprattutto per sciogliere la piega, che aveva preso quella chiacchierata.

Sogni e sensi di colpa vanno a braccetto, il tempo può solo stare a guardare, senza emettere un fiato. Purtroppo, o per fortuna, il tempo non può niente contro la coscienza, la fucina dei nostri ragionamenti principali.

“Cla, sogno di rivedere Diego… sogno di essere perdonata, di potermi scusare e di sentire dalle sue labbra parole di approvazione… sogno che ci stringiamo la mano e che tutto torni alla normalità… poi però mi sveglio…” – feci rotolare una castagna sul tavolo, tracannai l’ultimo sorso di Coca-cola dal bicchiere – “…Mi sveglio e il senso di colpa è proprio lì, ai piedi del mio letto, che mi augura il buongiorno. Poi mi aiuta ad alzarmi, si posa sulla spalla. E mi segue con attenzione di stanza, in stanza!”

Claudia era addolorata, quanto me. Non sapeva cosa consigliarmi, non sarebbe bastata una battuta di spirito sul Reiki a farmi rallegrare. Mi sentivo uno straccio per aver mandato a rotoli la nostra cena-sole-donne.

“Hai un fazzoletto?” – fu l’unica cosa che volli aggiungere alla confidenza finale, che avevo rilasciato.

“Certamente…” – Claudia si alzò per prendere la scatola di Kleenex sul mobile della TV, poi si risedette a tavola – “…Ele, non esiste senso di colpa che non puoi distruggere… perché sei tu stessa la creatrice di questo! Cerca nell’amico Tempo un alleato contro di lui e, insieme, penso proprio che potrete sconfiggerlo… o almeno… imbottirlo di calmanti, per farlo dormire per un po’!”

Alla fine di ogni conversazione, Claudia sapeva sempre cosa dire. E anche quella volta riuscì a trovare la chiosa adatta.

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Al Parco Europa dissi “Addio”

Vengo qui tutte le mattine. Che faccia freddo o che si muoia dal caldo. Tutte le mattine, prima di recarmi all’università, salgo con la macchina la strada della collina, che porta al Parco Europa. Là mi aspetta la solita panchina. Ormai potrei inciderci il mio nome sopra lo schienale. Tanto… è sempre lì che mi aspetta. Vuota. Addirittura, quei pochi passanti, mattinieri come me, che portano a spasso il cane, si siedono altrove, su altre panchine posizionate precisamente alla stessa distanza tra di loro, lungo il viale. Tutti sanno che quella panchina è la mia. Me la sono guadagnata.

Al Parco ci venivo sempre con Teo. Un amico, un amante? Ancora oggi mi chiedo cosa sia stato. Potrei descriverlo come fece Edmond Rostand riguardo al bacio:

<<Un bacio, insomma, che cos’è mai un bacio? Un apostrofo rosa fra le parole “t’amo”.>>

Ed era stato proprio un apostrofo Teo. Così poco accentuato, così breve, che mi aveva lasciato quel sapore amaro in bocca, che nessun bacio dovrebbe mai lasciare.

Era entrato nella mia vita improvvisamente e, altrettanto, ne era uscito.

Avevamo cominciato ad incontrarci al Parco Europa, anche più di una volta al giorno. Quel posto era diventato il rifugio silenzioso e tranquillo, in cui stare insieme. Nessun occhio indiscreto, nessuna parola fuori luogo ci raggiungeva. Nessun giudizio, nessuna critica. Semplicemente accoglienza; il Parco ci voleva bene, aveva avuto pietà di noi, come anche i nostri cuori, che inizialmente si nascondevano dietro mille scuse e giustificazioni. La panchina, che ora mi spetta di diritto, era la nostra.

Ecco come me la sono guadagnata.

Inizialmente era tutto cominciato da una sottile condivisione: Teo, che aspettava alla panchina, solitamente di mattina presto, mentre poi al pomeriggio tardi, io e il mio zaino scrutavamo il panorama perfetto di Torino, in attesa della sua venuta. Come era saccente Torino, vista da lassù. Aveva l’aspetto di una città indottrinata dai migliori professori. Così boriosa e arrogante, percepivo che mi osservava a sua volta. Odiavo quel confronto, ogni volta che attendevo Teo. Occhi negli occhi, non distoglievamo lo sguardo. Volevo averla vinta sulla sua strafottenza. Come si permetteva di dubitare di me?

Non appena Teo arrivava, quella tensione altezzosa svaniva. Tornava tutto a risplendere, a essere così ospitale e confortevole. Teo creava la magia e io mi nascondevo dietro. Non potevo farne a meno.

Reputavo ogni alba e ogni tramonto il momento giusto, affinché ricevessi quella bramata notizia: la decisione di Teo, il suo sì. Mi sono resa conto che non attendevo il suo arrivo, aspettavo solamente il momento in cui avremmo lasciato per sempre il Parco Europa, per scendere a Torino, in mezzo alle persone, senza più nasconderci. Avremmo dovuto farlo, prima o poi. Se da un lato, tra quei viali mi sentivo al sicuro, dall’altro, ero stufa di vivere dentro ad un triste surrogato di quello che reputavo una storia d’amore. Non potevamo dire le bugie per sempre, celare quello che ci faceva vergognare a tal punto da darci l’appuntamento nel medesimo posto, ormai da mesi.

Mi arrabbiavo. Continuavo a fare quei discorsi con quello splendido angolo di Torino, che mi pareva disegnato. Ci litigavo e così, mi arrabbiavo ancora di più. Era uno scontro tra me e lei, che non voleva sentire ragioni, mi veniva contro con tutta la sua gelida collera. Ma che potevo farci? Ero in balia di una città e del suo abitante più scorretto. Mi sentivo impotente, volevo contrastare uno dei due, ma ognuno di loro mi sopraffaceva, senza fare alcuna fatica.

Il Parco era il mio unico amico, all’interno di quel posto così tranquillo e riparato, mi sentivo protetta.

Una di quelle mattine, mi recai alla mia panchina prediletta. Lo aspettai a lungo. Saltai la prima ora di lezione. Poi la seconda. Alla fine se ne andò tutta la giornata. Rimasi come inebetita a fissare il panorama tutto il giorno. Il sole, nel frattempo, danzava in cielo, ruotando per tutta la volta. Dialogavo mentalmente con Torino.

Lui non verrà…

Sentivo quelle parole sussurrate. Taglienti. Fredde. Cattive. Come solo quel paesaggio sapeva essere. Bello e dannato, insensibile e distaccato. Non gliene fregava nulla di me e del mio modo devoto di attendere.

Quanto sei cretina… sei ancora lì? Prendi lo zaino e tornatene a studiare… magari diventi più furba di così!

Osservavo la vista di fronte a me con disprezzo, cosa ne sapeva di me?

Teo quel giorno diede per la prima volta buca al nostro quotidiano appuntamento. Si comportò allo stesso modo i giorni seguenti.

Mi lasciò in eredità quella panchina, al Parco Europa, che io difendo gelosamente. Nessuno me la porterà via.

Mi siedo qui tutte le mattine. Che faccia freddo o che si muoia dal caldo. Nessuno mi porterà via ciò che resta di lui. Guardo sempre verso Torino e ascolto le sue parole di biasimo nei miei confronti.

Rispondo: “Addio, Teo”